Rosa pura contraddizione

Postato in Rose e Letteratura

di Liliana Beatrice Ricciardi

“Il nostro motto è: rose per la fronte dei nostri eroi o il cipresso per la nostra”.

I versi di Heinrich Von Kleist, vergati a mano dietro la laurea di mio padre, non corrispondono al disegno fatto a Venezia: qui le rose sembrano nascere da un flessuoso ramo di lauro, chimerica “contaminatio”.
La laurea, recuperata sotto le macerie del disastroso bombardamento del ’43, era attaccata alla parete del salotto, dietro il divano liberty a piccole rose blu e rami dorati, seminascosta da una rigogliosa aspidistria. Quando leggevo in Orwell dell’aspidistria che non fiorisce mai, quella della mia memoria si riempiva delle rose blu e delle altre – di un delicato rosa polvere – arrampicate sulla colonna con il medaglione del poeta.

Rosa Boule de NanteuilRosa Boule de Nanteuil

Dell’antica casa, dopo le bombe, era rimasta in piedi anche la grande stanza detta “melograno” per le crepe che si erano aperte sul soffitto a crociera. Una finestra alta e stretta, con pesanti sbarre di ferro, si affacciava su uno spazio verde lungo e stretto, hortus conclusus, tra alte mura ricoperte di edere, caprifogli, bignonie, clematidi e rose.
Sulla parete confinante della nostra casa “s’abbracciava per lo sgretolato/muro un folto rosaio a un gelsomino”.
Il rosaio saliva fino ai tetti e cospargeva di petali rosei il terrazzo, spazio dei nostri giochi. Lo raggiungevamo per una stretta scala a chiocciola di ghisa, ci arrampicavamo sui tetti, ci nascondevamo nelle soffitte impolverate ed infine ci sdraiavamo stanchi a leggere o disegnare nella parte coperta del terrazzo. Anche da lassù potevamo spiare il giardino misterioso delle rose – forse era quello di Santa Sofia – da dove saliva, nelle quiete giornate di maggio, l’odore fresco della salvia e della menta e quello intenso delle rose, del gelsomino e del caprifoglio.
Mi seguiva quell’effluvio anche quando andavo ad accoccolarmi sotto il grande tavolo di noce dove papà e mamma preparavano studenti privatisti alla licenza liceale.

Quanti paesi, quali voli della fantasia, quanti eroi e dame e cavalieri conobbi rannicchiata al posto del braciere, in quelle primavere piene di profumi da stordire. Maggio e giugno erano dedicati al “ripasso” generale delle letterature. Omero e Virgilio, le corti di Federico II e degli Estensi, Ariosto e Tasso, Carducci e Jaufré Rudel (Contessa, che è mai la vita?), Pascoli e D’Annunzio, Seneca ed Euripide, Beatrice Matelda Laura Fiammetta, la fuggitiva Angelica e la bella Armida, e Guido e Lapo, Fillide e Silvia, il dolorante Werther e l’infelice Jacopo, Roma e Cipro, la “deserta bellezza di Ferrara”, “ecco apparir Gierusalem si vede”, le isole Felici con il “picco di Teneriffa”, i Medici e i marinisti, gli scapigliati e i crepuscolari, il Carroccio, Pontida, Alberto da Giussano, Orlando ora furioso ora innamorato, Carlo Magno, Pia ed Ofelia…

Era tutta una danza di figure reali ed immaginarie, di luoghi fantastici e di città bellissime. Nella mia mente di cera vergine si incidevano per sempre i versi immortali di Francesca, il maggio odoroso di Silvia, le tamerici salmastre ed aspre e la collina tosca, le donne i cavalier l’arme gli eroi le cortesie…

E le rose
i consci rosai di D’Annunzio e quelli rampicanti o abbracciati ai gelsomini di Pascoli
le rose e l’ulivo sufficienti a rendere beata la solitudine di Alfieri
le ghirlande di rose delle feste di maggio del Poliziano e del Magnifico
la pudica rosa di Guinizzelli
l’altra fresca dell’orto aulentissima ed invidiata di Cielo d’Alcamo
le rose di dolore di Pasolini e quelle stucchevoli di Marino.

Mi avvolgevano petali di ogni colore, sentivo il profumo delle rose di Francia e di Persia, quello leggero della rosa canina del nostro “verziere” in campagna (l’uva più buona era dietro quel cespuglio ) e della “Maresciallo” (la “Maréchal Niel) che cercava di spodestare gli aranci e i limoni sulla casa di pietra e tufo grigio.

E intanto i miei genitori trasmettevano a me e a tutti gli altri l’amore per l’apprendimento, per la cultura, per la bellezza della conoscenza.
Mio padre si era dedicato agli studi dopo gli orrori della Grande Guerra. Nella sua semplice e limpida anima di ragazzo di campagna – attonito ed impaurito nelle notti di trincea tra quei monti aridi e lontani, così diversi dalle dolci colline argentate dagli ulivi della sua terra – quella frattura con la vita incise in modo profondo. O forse fu l’incontro con il poeta dagli occhi di ghiaccio (uomo di pena/ti basta un’illusione/per farti coraggio). Cercò ogni mezzo per studiare. Andò a Roma presso i Salesiani, in pochi anni riuscì a diplomarsi e poi a laurearsi. Leggeva e traduceva il greco ed il latino come fossero il suo dialetto di origine.

Mamma fece i suoi studi – con immensi sacrifici da parte dei genitori – in un collegio di Orsoline.

Amavano con il medesimo trasporto la poesia, l’arte, la natura, la lirica e riuscivano a coinvolgere tutti nell’avventura del sapere. Furono maestri di scuola e di vita impareggiabili.

Erano bellissimi, eleganti, come nella foto del 1929, al Gianicolo: lui in fresco e disinvolto lino, lei ombrellino da sole e cappello di paglia con grandi stilizzati disegni di rose.
Soggiornarono, in viaggio di nozze, nel celebre Albergo del Sole presso il Pantheon, meta di poeti e di artisti, descritto in una satira dell’Ariosto (a quel tempo locanda del Montone).

… “Indi col senno e con la falda piena
di speme, ma di pioggia molle e brutto
la notte andai sino al Montone a cena.”…

Nella annosa e mai risolta questione tra l’arte dell’Ariosto e del Tasso papà propendeva per il primo, vero spirito rinascimentale, sereno, equilibrato, alla continua ricerca di quella libertà spirituale che fu la grande conquista del Rinascimento. Mamma si sentiva più vicina all’anima inquieta del Tasso e introduceva le lezioni su di lui citando i versi di Leopardi, fratello di sventura e vittima della stessa eccezionale sensibilità del poeta sorrentino. “O Torquato, o Torquato…/oh misero Torquato! Il dolce canto/non valse a consolarti o a sciorre il gelo/onde l’alma t’avean, ch’era sì calda/cinta l’odio…”. Sotto la quercia del Tasso, quel giorno di luglio, al Gianicolo, “dimenticò” il suo ombrellino da sole.